AQUÈL MALESTROÙS 1° DE FEBRIÈR 1937* (QUEL TRAGICO 1° FEBBRAIO 1937) Pietro Ponzo da "Val Mairo la nosto" *in realtà 30 gennaio N.d.R. Articolo della "Sentinella d'Italia", 3-4 febbraio 1937.
Dopo tre giorni, durante i quali aveva nevicato fitto fitto, finalmente una sera ad occidente le nubi si ruppero, appena in tempo per lasciar vedere mezzo disco di sole che stava tramontando dietro il monte Cassìn. «Marco de bel temp per lou journ d'après [Segno di bel tempo per il giorno che arriverà]» pensarono gli abitanti del Préit. Infatti il giorno seguente i mattinieri, con gradita sorpresa, constatarono una limpidezza di cielo da rallegrare il cuore, ma quasi contemporaneamente e con minor piacere sentirono frullare "l'aire marìn" – una brezza sciroccale – e ciò voleva dire, dopo così imponente nevicata, pericolo immediato e sicuro di valanghe. Ore 8 di quella mattina: dalla mulattiera, che dal fondovalle immette nella piazzetta dinnanzi alla chiesa, sbuca una colonna di soldati. Sono gli alpini della 18a compagnia del battaglione Dronero. Carichi come muli di pesanti zaini, fucili, racchette e ansanti, via via che giungono, si radunano e fanno alt per un momento di sosta. Un borioso capitano, pur con evidente riluttanza, si degna tuttavia di rivolgere la parola a un gruppetto di gente del posto, che stava osservando i soldati, per avere qualche informazione sull'itinerario in direzione della Gardéto (Gardetta). Gli interpellati, grandemente stupiti che quell'ufficiale voglia mettere i suoi soldati in così grave pericolo di essere travolti da qualche valanga, cercano di dissuaderlo, pregandolo di desistere, ché voler marciare verso La Gardéto con una nevicata simile ed il vento di scirocco equivale ad un suicidio. Un tenente, che senza parlare avava seguito il dialogo, si avvicina e dice al suo superiore: «Capitano, se questa gente ch'è del posto ed ha certamente esperienza, avesse ragione?». Ma il capitano, infastidito, tronca la parola al tenente, dicendogli: «Lasci perdere, tenente, che vuole che sappiano costoro! Sono solo dei "rozzi" montanari». E la compagnia, dopo breve sosta, si rimette in marcia. Un andare massacrante! Gli uomini del plotone sciatori, pur faticando molto anch'essi, si tengono relativamente a galla, ma quelli del grosso della compagnia, anche con le racchette ai piedi, affondano in quello spesso manto nevoso di due e più metri di altezza, col risultato che la marcia si svolge talmente lenta, da impiegare più di un'ora e mezzo per coprire i circa due chilometri e mezzo che separano [Preit] dalla "ruhà Court" (borgata Corte). Casa Corte sopra il Preit nel 1973 (Foto Luigi Massimo)
Qui la compagnia fa di nuovo alt, ed alle reiterate e pressanti esortazioni che la gente del posto fa di nuovo a quel capitano, perché non prosegua la marcia, tanto è immediato ed evidente il pericolo, costui, senza tenerne conto, ancora una volta offende con volgari apprezzamenti. Dopo breve tragitto la compagnia giunge a Grangéto, al bivio da cui si dipartono due direttrici verso la "counco de Pianés": a sinistra per Grànjos Quialaussà e la Méyo e a destra – la più breve – direttamente verso la Gardéto. Là il capitano si trova nell'incertezza: a destra i ripidi costoni di monte Pralounc gli danno da pensare; di fronte, a distanza, gli ancor più ripidi costoni sotto le Tres Poùnchos par che gli dicano: vieni, la morte ti aspetta!
Grange Selvest, al ponte per il Lago Nero, Grangèto nel testo (Foto Enrico Collo)
Nel rugginoso testone di quell'uomo impastato di sufficienza, pare che cominci a concretarsi qualche briciola di ragionamento; si consulta con il suo tenente e opta per la direttrice Quialaussà-La Meyo. Da quella parte, anche se minore, il pericolo esiste pur sempre e, malgrado certi schianti di assestamento, che potrebbero anche dare inizio a rovinose valanghe e che fanno raggelare il sangue nelle vene a quei malcapitati ed estenuati ragazzi, la marcia continua, miracolosamente senza danni, fin dopo Grànjos Quialaussà, ma, qui giunti, sentono in alto, alla loro sinistra, il pauroso boato d'una valanga, che si è staccata dal monte Berjo (Bergia) e precipita veloce nella loro direzione. Affondati come sono nella neve e impacciati dalle racchette, ogni tentativo di sottrarsi all'investimento con la fuga appare impossibile. Ma là si verifica il miracolo! Fu davvero un miracolo che quella montagna di neve precipitante si arresti quasi a contatto con la colonna degli alpini, sfiorandola per lungo, con una inspiegabile deviazione dalla direttrice di caduta. Grange Culausa; sulla destra, in ombra, la parete di Rocca La Meja; di fronte, il Monte Berjo (Foto Enrico Collo)
Quel pauroso avvertimento dovrebbe far capire al capitano che è giunto, anche se in extremis, il momento di adottare ogni possibile accorgimento, per garantire il minimo di incolumità ai suoi uomini per il resto della marcia. Ma non è così. Dopo ancora un altro chilometro di cammino faticoso, giunti oramai alla base dei vasti e ripidi costoni sotto i contrafforti ovest di Rocho-la-Méyo, là dove parte un crinale modestamente elevato, facilmente transitabile, che si allunga fin verso lou Jas de Marguerino, il capitano lo infila con il plotone degli sciatori, diretto a quella località, ed ordina al tenente di salire con la compagnia fino a metà costone, di transitarlo poi in trasversale verso sud e di riunirsi agli sciatori alle Granjos-de-la-Marguérino. I contrafforti settentrionali di Rocca la Meja, da cui si staccò la valanga. (Foto Enrico Collo)
Nessun "rozzo" montanaro, per cafone che fosse, e nessun ufficiale di truppe alpine degno di quella qualifica avrebbe, senza inderogabile necessità, mandato degli uomini a transitare quel costone in condizioni di così palese pericolo, ma avrebbe fruito del crinale fuori pericolo, dove, appunto, furono fatti passare gli sciatori. E perché quell'incosciente capitano non lo fece? Sta di fatto che, appena la colonna inizia la traversata, una valanga si stacca e investe il plotone di testa, trascinando in basso gli uomini e seppellendoli in un avvallamento. Nella grande disgrazia, fu fortuna che l'attraversamento era appena iniziato: poiché, se la neve fosse rovinata quando tutta la compagnia era inoltrata, essa al completo sarebbe stata travolta. Altra circostanza inspiegabile per chi conosce la vita alpina e le rigorose norme preposte a garanzia della sicurezza degli uomini durante le marce militari in montagna, perché queste avvengano almeno con il minor danno possibile, è che in condizioni così pericolose il responsabile della compagnia non abbia fatto svolgere le funicelle da valanga. Dimenticanza? Indifferenza per l'incolumità dei suoi alpini, forse considerati non figli di mamma, ma solamente oggetti? Panorama della Gardetta, dal colletto a poche decine di metri dalla sciagura (Foto Enrico Collo)
Ore 17, già quasi il crepuscolo. Una pattuglietta di sciatori, sfiniti ed angosciati, arriva al Préit, di ritorno dalla marcia. Ai primi incontrati hanno appena il fiato di mormorare: «Sotto Rocca la Meya quasi tutto il plotone è rimasto sepolto da una valanga! La compagnia è di ritorno, molto staccata da noi». La notizia si sparge e in un baleno tutta la popolazione è radunata nella piazzetta. L'ansia è grande, anche alcuni alpini del posto sono in quella compagnia, ma, fortunatamente, più tardi risulteranno tra gli scampati. Passa un certo tempo e a monte sbuca una compagnia. Gli alpini procedono a testa bassa, sfiniti, con il morale a terra. Il capitano è disgustosamente impassibile, sul suo viso non si notano tracce di emozione, né di dolore, né rimorso. Lascia i suoi alpini sulla piazza fermi e disorientati e si dirige verso l'unica piccola locanda del posto, per ristorarsi. Piazzetta del Preit oggi (Foto Enrico Collo)
Un giovane sottotenente (il tenente era rimasto sotto la valanga) raduna i suoi soldati e li conduce ad una grande stalla disabitata, priva di porte e di finestre, dove avrebbero dovuto pernottare, senza disporre nemmeno di un giaciglio di paglia asciutta per stendervi le ossa indolenzite. Ma la grande umanità ed il buon cuore dei "rozzi" montanari del Préit in breve tempo si portò via gli alpini, a gruppetti, disponendoli al caldo un po' dappertutto: nelle stalle, se erano sane e asciutte, oppure nelle cucine, al caldo delle stufe. Vengono subito ristorati con grandi tazzoni di caffè o latte bollente, poi fatti cenare con un po' tutto quel che la gente aveva a disposizione in fatto di vivande. Nelle stalle dormiranno su asciutti giacigli di paglia e nelle cucine su delle coperte stese sul pavimento, attorno alle stufe. Quella gente aiutò gli alpini come fossero figli suoi. Maggio 1937: si scava per estrarre le ultime vittime (Foto Enrico Collo)
La 19a compagnia dello stesso battaglione, che si trovava ad Elvo, avuto l'allarme, marciò nella notte e, pur avendo dovuto per forza passare in zone pericolose, grazie alla perizia del comandante, comandante Palazzi, di primo mattino raggiungeva Préit senza danni. Appena giunto, quell'ufficiale, che conosceva alcuni giovani del luogo, per averli avuti prima alpini nella sua compagnia (e tra essi anche chi scrive questi ricordi) li volle con lui come guide, per portarsi col suo reparto, senza altri infortuni, sul luogo del disastro e iniziare il recupero delle salme. Con trepidazione e fatica, indicando al capitano i passaggi che la nostra esperienza giudicava ancora pericolosi, facendogli a volte deviare il tragitto, a costo di allungare e sussultando di paura per qualche pauroso schianto di assestamento, dopo tre ore e mezzo di marcia eravamo sul luogo e la ricerca delle vittime incominciava. * * * * Sono passati quasi quarantacinque anni, io oramai di anni ne ho già molti, ma ho sempre nel ricordo i tre faticosi giorni di ricerca, nella massa della valanga, dei corpi irrigiditi di quei poveri ragazzi. Mi rendo conto che posso destare dolorosi ricordi in qualche famiglia, che perse allora un figlio, ma non posso fare a meno di dire che quella disgrazia poteva essere evitata. La si poteva evitare, rimandando la marcia ad altra giornata meno pericolosa: la si poteva evitare tenendo conto dell'esperienza della gente del posto e, in estremo, la si poteva ancora evitare usando un po' di buon senso, di rispetto della vita altrui e mettendo in pratica tutti gli accorgimenti consigliati in simili circostanze. Come ho detto, sono passati lunghi anni, ma vedo ancora con gli occhi della memoria, in quei visi giovanili, più che terrore, un angosciato stupore, come volessero dire: «Perché, perché siamo stati condotti a morire così? ». Almeno la memoria gli altri scritti dell'opera
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